lunedì 23 maggio 2011

Tunisia, non è tutto oro quello che luccica

Sono sfiancata. Per un mese ho vissuto in un flipper. In cui ero la pallina. In una  complicatissima partita in salita (proprio come in un flipper) sono stata scaraventata davanti a più di venti impiegati pubblici, altrettanti tassisti e sei poliziotti senza capire se chi mi stesse ascoltando avesse capito o meno di cosa avessi bisogno, senza sapere se mi avessero dato informazioni corrette o meno, senza capire se quello che stavo facendo corrispondesse ad una procedura esistente o meno. Sono passata dall’impiegato del comune di un quartiere periferico e dei più malfamati di Tunisi, che rantolava parole in un francese stentato senza essere in grado di leggere i documenti che avevo, al direttore di chiaro stampo RCD (l’ex partito di Ben Ali) che bivaccava sulla scrivania priva di fogli e computer con la sua ingombrante pancia abbondantemente fuori dai pantaloni come in un film di Peppone e Don Camillo.

Sono arrivata davanti all’impiegata che, al telefono prima di ascoltarmi, dava indicazioni al figlio e alla femme de menage su come trascorrere il pomeriggio. Sono passata per ben due volte al Ministero degli Esteri, dove dei due impiegati esistenti, uno è solo preposto ad apporre una firma, solo dopo aver composto l’ennesimo numero di telefono ignorando compostamente le cinquanta persone in fila. Sono arrivata dinanzi all’impiegata che, per fortuna, aveva capito il mio problema ma non poteva aiutarmi perché la persona specificamente incaricata era uscita arbitrariamente prima e quindi avrei dovuto ritentare la sorte il giorno dopo.
Ho impiegato un mese intero per preparare i documenti per una pratica che ho scoperto essere inutile una volta giunta al Ministero del Lavoro, proprio quando, secondo me, stavo per vincere la partita. Stupidamente ingenua. Inutile voleva dire che tutti i soldi e le energie che avevo speso in un mese intero non erano serviti a nulla e la parola d’ordine era ricominciare da capo. In quel preciso momento, ho pensato che avrei preso il barcone. Anche io.
Devo ammettere che l’unica cosa che mi ha salvato in questa durissima partita è stata la perseveranza, sano valore inculcatomi dal mio Occidente. Non tanto per un obiettivo preciso quanto per pura voglia di voler arrivare fino in fondo, toccando il fondo. Capire se esistesse davvero un fondo.
Altre due settimane a racimolare forze e motivazione per superare un cavillo insormontabile ad ogni passo. La cosa che distrugge psicologicamente è che si trova semplicemente un cavillo, magari una sciocchezza ma nessuno sa quale possa essere la soluzione. Un sistema indistricabilmente mafioso a matriochka. Un inghippo dentro l'altro. Questo sfianca. Che l’impiegato preposto non abbia una soluzione da proporre. Niente. E tu non puoi più nulla. Ancora una volta ho creduto di non farcela. E di prendere ancora quel barcone. Perchè non ce la fai, perdi la motivazione e il senso di quello che stai facendo. E ti dici e ti ripeti che alla fine sì, è meglio stare al bar a bere un caffè tanto non cambia nulla piuttosto che vivere come la pallina di un flipper. 
Ammetto che anche l’Italia cada a pezzi e che per la prima volta mi trovi ad essere un'immigrata. Peró quello che non riesco ad interpretare è la mancanza di soluzioni. Se l’impiegato si arrende cosa deve fare l’utente? Se il medico getta la spugna cosa deve fare il paziente? Manca totalmente il senso di responsabilità, per quello che si fa e che si rappresenta. Soprattutto nei luoghi pubblici. Perché se gli impiegati o i funzionari sono arrivatidove sono è solo perché qualcuno li ha raccomandati. Nella maggior parte dei casi, l’impiegato non sa fare più di quel poco che gli è stato insegnato il primo giorno e non sa nemmeno bene dove lavora. Semplicemente perché non gli importa.
La Tunisia è un Paese accogliente, caldo, caloroso, in cui si vive bene. D’accordo. A meno che non si sia ‘tunisini normali’. Ossia senza soldi, senza lo stendardo passepartout di un’organizzazione internazionale o di una chicchessia ambasciata o senza doppia nazionalità. E senza essere stranieri con una delle tre connotazioni già enunciate né turisti. Ma è durissimo per un ‘tunisino normale’ vivere qui. Basti pensare a quante volte nella nostra quotidianità abbiamo bisogno di recarci negli uffici pubblici. Comune, ospedale, provincia, stazione di polizia, scuola. Si arriva ad un punto in cui si é abbandonati a se stessi, né più né meno che sul barcone. Abbandonati al caso. E quando sembra che la ciambella sia riuscita con il buco, salta fuori la famiglia Trabelsi (della moglie di Ben Ali) a complicarti la vita. Perché é vero che Ben Ali è partito ma in tutte le società della Tunisia, soprattutto esportatrici, c'era e forse c'é ancora se non si modificano tutti gli statuti delle società, lo zampino della Famiglia. Scoramento.
E chi vive tutto questo da quando è nato, dove trova la motivazione che io ho perso ben prima di arrivare alla fine della partita (che sto ancora giocando, quasi per forza d’inerzia)? 

Nella lingua araba, ben più saggia degli uomini, il termine clandestino si traduce con arrāga, "coloro che bruciano" (i documenti). In fondo, anche Mohamed Bouazizi ‘ha bruciato se stesso’ (il verbo utilizzato è lo stesso) innescando il processo della rivoluzione tunisina e a migliaia ‘hanno bruciato’ prima di lui e tanti altri continuano a farlo. Bruciare in questo Paese vuol dire assumersi il rischio che qualcosa cambi. E in ogni caso fa male.
In tutto questo domani verrà confermata la data delle elezioni e il numero dei partiti è salito a 67 di cui 28 sono dell’ex RCD. Mi chiedo, cambierà veramente qualcosa?





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