lunedì 23 gennaio 2012

Le voci di Marrakech

“Che c’è nella lingua? Che cosa nasconde? Che cosa ci sottrae? Durante le settimane che ho trascorso in Marocco, non ho tentato di imparare l’arabo né alcuna delle lingue berbere. Non volevo perdere nulla della forza di quelle strane grida. Volevo essere colpito da quei suoni per ciò che essi erano, e non volevo che nulla fosse attenuato da cognizioni inadeguate e artificiose. Sul paese non avevo letto niente. I suoi costumi mi erano estranei come la sua gente.
A ciascuno capita d’imparare nel corso di una vita qualcosa su tutti i popoli, ma quel poco lo smarrii nelle prime ore. Mi rimase tuttavia la parola ‘Allah’, non potevo evitarla. Tutti i ciechi offrono a chi passa il nome di Dio, e ogni persona, dando loro l’elemosina, può acquistare qualche diritto presso di lui. Iniziano con Dio, terminano con Dio, ripetono il suo nome diecimila volte. Tutte le loro grida contengono il suo nome in forme mutevoli, ma il grido, una volta stabilito, rimane sempre lo stesso. Sono arabeschi acustici intorno a Dio, mille volte più impressionanti di quelli visivi. Alcuni confidano soltanto nel suo nome e non gridano altro. C’è in questo una tremenda ostinazione: Dio mi si presentò come un muro al quale i ciechi davano l’assalto sempre nello stesso punto.”

(da Le voci di Marrakech)

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