sabato 3 novembre 2012

Mon amie, la Kabylie


In fondo sono stati soltanto tre giorni, me lo ripeto spesso. Ma tutto è stato così emotivamente intenso che raramente mi sono sentita così inadeguata. Non ero pronta per piombare in una terra così accogliente, calorosa, umana e al contempo dura, forte e orgogliosa come quella: l’osso duro della cultura berbera d’Algeria, la Kabylie.
Non mi aspettavo di condividere momenti di vita con chi ha passato tre, sette, dodici anni in una prigione algerina, umiliato, picchiato e torturato per difendere i diritti umani. Per difendere e affermare l’esistenza di una terra, di un popolo come minoranza, di una lingua (tamazigh) e di una cultura (amazigh) che vanno diffuse e rispettate in quanto tali, perchè sono ricchezza. Mi sembrava di esser tornata indietro nel tempo, di vivere qualcosa di anacronistico mentre sentivo parlare di diritti umani con chi ha lottato per affermarli, rischiando la morte in prima persona e vivendo l’umiliazione delle torture più feroci. Ed è in Kabylie che ho visto la macchina sfigurata dai segni delle 78 pallottole sparate per uccidere il cantante simbolo di quella terra, Matoub Lounès, nel 1998. Ed è lì che mi son trovata a parlare con Malik Medjoun, accusato del suo assassinio, che, nonostante la sua innocenza, ha scontato dodici anni di carcere e di efferate torture, fino al 2 maggio 2012. E a stringere la mano ad un vecchietto ormai senza denti ma dall’aria tutt’altro che mite, che nel 1976 è stato un poseur de bombes (ed ha pagato con sette anni di carcere). Ed è lì che ho passato tre indimenticabili giorni con Monsieur Abboute, un sorridente sessantenne dall’aria tranquilla che è stato rinchiuso in prigione per ben due volte, nell’aprile 1980, colpevole di aver difeso il suo diritto di parlare la sua lingua e di affermare la sua cultura e nel 1985, per aver partecipato alla creazione della Lega Algerina per la Difesa dei Diritti Umani (LADDH). Che negli anni di militanza e di nascondigli forzati, preferiva non giocare con i suoi bambini perchè almeno, se un giorno fosse morto, ucciso dai terroristi o dal governo, loro non lo avrebbero pianto. E salutare una vecchina, la mamma di Matoub Lounès, seduta da quattordici anni sulla stessa sedia, quella dalla quale custodisce, senza sapere la verità sulla sua morte, i ricordi ancora vivi della vita del figlio. E incontrare un giovane della mia età, militante del MAK, il Movimento per l’Autonomia della Kabylie e capirne la grinta e la veemenza solo dopo aver intuito che quella voglia di riscatto ce l’ha da quando suo cugino di sedici anni è morto a colpi di pistola durante la Printemps Noire. Quando la gente della Kabylie è scesa in strada per la prima volta per rivendicare pubblicamente l’esistenza di uno stato berbero. E poi andare al Dipartimento di Berbero all’Università di Tizi Ouzou e incontrare un simpatico e grassoccio professore che insegna lì dal 1992 ma da dieci anni rifiuta di percepire il suo stipendio, perchè insegnare e diffondere la cultura amazigh è insieme un obbligo morale e sociale. E allora capita che ti senti piccolo piccolo ma la forza di questa gente ti fa continuare a sognare...


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