mercoledì 10 luglio 2013

Bye Bye Babylon, efficacissimo racconto di un Libano più attuale che mai

Nel 1975 avevo 7 anni e mi piacevano i Bazooka, i chewing-gum che mia madre comprava a me e Walid da Spinney's, a Ramlet el-Bayda. Spinney's, supermercato ultramoderno, aveva aperto a Beirut qualche anno prima: un monumento nazionale a tutto il meglio del mondo occidentale. I primi carrelli del Libano, le prime scale mobili (o le seconde; forse le prime sono state quelle di Byblos, non ricordo). Un vero paradiso che presto andrà in fumo, come tutto il resto. Mentre, con nostra somma gioia, i carrelli e le corsie traboccano degli stessi prodotti da sogni dei supermercati di New York o di Londra, i magazzini delle milizie si riempiono di armi e munizioni di ogni genere.
Di ogni tipo, provenienza e calibro. Il Libano è una vera e propria polveriera che aspetta solo una scintilla...ma noi ci ostiniamo a credere che il nostro Paese sia contemporaneamente la Svizzera, la Parigi, la Las Vegas, la Monaco e l'Acapulco del Medio Oriente e continuiamo a spassarcela. Dai tavolini di Raouché o di Ain Mreisseh, dove ogni tanto andiamo a mangiarci una banana split, non si scorgono le bidonville sciite, né i campi palestinesi. E in ogni caso con gli occhiali da sole il marcio non si vede...

Nel 1975 il Libano si trova ad essere una pericolosa polveriera sul punto di esplodere e “Bye Bye Babylon” è proprio il racconto dei primi anni di una guerra civile che distruggerà letteralmente Beirut, che si porterà via l’anima stessa di una città le cui mille luci, la vita ricca, dorata, abbagliante di benessere e sogni, cominciavano a far sognare la bambina che era l'autrice allora. Così i ricordi di Lamia Ziadé, quelli più terribili e quelli più cari, il sapore dell’hamburger e quello della polvere delle macerie; la paura, il dolore, le notti insonni, il senso di sfida rischiando il proiettile di un cecchino per andare alla cioccolateria aperta sotto una linea di demarcazione...È come se tutto questo fosse lievitato negli anni, fosse cresciuto fino a riprendere vita sotto forma di disegni, colori, forme e parole...
Niente più corrente elettrica, ci si fa luce con le candele, le torce, o con la fiamma bluastra del camping-gaz. Non si prende più l'ascensore, anche quando c'è la corrente. Abbiamo troppa paura di rimanerci bloccati se per caso decidono di tagliare l'elettricità. Il telefono raramente funziona. Con gli anni sarà sempre peggio. Si passano ore ad aspettare la linea, si compone il numero con mille precauzioni, come se si camminasse sulle uova, tendendo l'orecchio al più piccolo sospiro, soffio o fischio della cornetta, come un dottore che ausculta un paziente per poi vedere andare in fumo ogni speranza al suono di "occupato" e ricominciare tutto da capo...la frase miracolosa "Ho preso la linea!", urlata ai quattro venti, viene sempre accolta da grida di gioia; da evviva a urrà. É il segno tangibile che Dio non ci ha abbandonato del tutto...
Un romanzo che in realtà conta su poche pagine scritte, brevi paragrafi, quasi delle didascalie, per una sorta di diario che rivela anche qualche velatura di malinconico umorismo, frutto dell’elaborazione a posteriori di un passato impossibile da dimenticare.
Dopodiché comincia la "guerra dei cento giorni"* che vedrà le milizie cristiane opporsi ai siriani, loro vecchi amici...quell'estate, inebetiti, assistiamo anche alla sceneggiata della firma degli accordi di Camp David. Sorrisi di soddisfazione, amore, pace...Beirut sta agonizzando, ma siamo contenti per quelli che sono là, a Camp David. Siamo commossi, abbiamo addirittura le lacrime agli occhi. Soprattutto a Camp Sabra, Camp Chatila, Camp Bourj Brajneh, dove si piange proprio.
Non lo sappiamo ma piangeremo ancora...

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